martedì, gennaio 05, 2016

OCEANO


Ci sono tanti modi di vedere la vita.
Come una successione infinta di eventi, come un’avventura, come un affanno insensato verso il nulla. Io ancora non conosco il mio, ma so come evitarlo.
Lavoro in un bar a qualche passo dalla spiaggia. I vetri sono anneriti dal numero infinito di gocce che vi hanno ruzzolato sopra. Il bancone è decorato da vetri di bottiglia smussati dalle onde. Odore di salsedine ed un caleidoscopio di colori quando il sole li colpisce.
Mi lavorare al bar perché mi permette di vedere sempre gente diversa. Oggi al bancone è seduto un ragazzo con i capelli arruffati ed un paio di occhiali calati sul naso. È appollaiato sullo sgabello più lontano dalla porta e sta leggendo un libro rilegato in pelle. Le avventure di qualche capitano con la barba bianca. Per terra, al suo fianco, una borsaccia consunta che conterrà una Polaroid ed un iPhone 6. Metto particolare impegno nel suo cappuccino sapendo che finirà su qualche social network. Non alza lo sguardo quando glielo poggio davanti.


Sa di mare.
Tutti ne sanno.
In fondo alla stanza è seduto un vecchio pazzo con la faccia consumata dal sole e qualche dente mancante. Arriva ogni mattina alle otto e se ne va verso le dieci e mezza. Ordina sempre un tè alla menta con uno spicchio di limone ed un espresso. Aspetta che il caffè sia freddo prima di berlo.
Non tocca mai il tè.
So che è pazzo perché una volta l’ho visto parlare ad un piccione col viso spiaccicato contro la vetrina del locale, i residui di bava da pulire alle undici. Eppure continuo a pensare che quel tè alla menta con uno spicchio di limone sia per qualche amico di cui lui aspetta ancora l’arrivo. Magari di una delicatezza femminile di cui tutto ciò che è rimasto è quella foglia che lentamente macera nel liquido caldo.
Odio finire di lavorare. Sono una studentessa universitaria perciò fine del lavoro significa casa e casa significa studio e bollette da pagare e pavimenti da lavare. Continuo a consumarmi per cercare di restare in una gabbia di cui davvero poco mi importa. Come la cera di una candela che goccia insistentemente nel suo piccolo contenitore, distruggendosi solo per tornare se stessa. Tutto questo perché nessuno ha avuto la pietà di soffiare.
Certe volte, quindi, non ci torno a casa. Vado in spiaggia. La spiaggia al tramonto è molto più affollata di quanto mostrino i film. Coppiette che limonano, ciccioni che corrono e facce stanche che portano a spasso il cane. Devo camminare un bel po’ per trovare un minimo di tranquillità, ma non mi dispiace. Il rombo del vento e lo squittio dei gabbiani, lo scricchiolio dei ciottoli sotto i miei piedi: un’orchestra che si esibisce specialmente per me.
In piedi a qualche metro dalla riva c’è un ragazzo. È biondo ed è un artista. Lo vedo spesso in quello stesso punto, ritto davanti al cavalletto che non monta mai davanti a me. Dipinge sempre paesaggi diversi, mai il mare.
Sono innamorata di lui.
Molte volte sono stata in sua compagnia sulla spiaggia e lui mi ha sempre servito una tazza di calda indifferenza. Non sembra si sia mai neanche accorto della mia testolina o della borsa che ogni volta faccio cadere ai suoi piedi, in una muta richiesta di protezione. Per questo lo amo.
Come al solito faccio qualche passo verso le onde, finché i miei piedi non sono accarezzati a intervalli regolari dal pigro stiracchiarsi dell’acqua. Sento la tela delle scarpe inzupparsi e inizio ad avanzare. Mi fermo di nuovo quando la gamba dei jeans è ormai un’armatura pesante e appiccicosa ogni volta che le onde fuggono da lei. Un altro paio di metri e la stoffa della maglietta si gonfia, lasciando che il mio torace venga avvolto da mille mani salate. Ormai solo le mie spalle affiorano dall’acqua, come due piccole isole sorelle. Davanti a me c’è il sole che si sistema comodo sulla linea dell’orizzonte. Prendo un bel respiro e mi immergo.
Resto così, per un paio di secondi, ad assaporare la sensazione di non pesare nulla accoccolata in un cielo a testa in giù. Aspetto ancora poco e poi la inizio a sentire, la mia umanità che mi ridà dimensione prepotentemente, con il cuore che sbatte sulla cassa toracica, anelando a quella distesa d’ossigeno poco sopra il confine del mare. Apro gli occhi e tra i fumi acidi che li corrodono vedo i figli del sole danzare pigramente sopra di me. Allungo una mano ed apprezzo il mio intero corpo che spinge e lotta per quel poco d’aria così vicina. Sento i polmoni contrarsi e la testa affievolirsi, se resto ancora un po’ scoprirò chi vince fra l’istinto e il cervello. Ed è proprio qui, questo preciso momento che cerco. Quando, affacciata da una finestra salata sul mio bene più grande lo sento.

Irrefrenabilmente,
indubbiamente,
viva.

sabato, marzo 28, 2015

PREPOTENTI

A volte te ne stai lì e passeggi per la tua strada. Sei tranquillo, non ci pensi neanche a cercarli. E poi, improvvisamente ne spunta uno, e ti salta sulle schiena. Si appollaia là, come un grasso diavolo, e non importa quanto scuoti, quello non casca. Ti puoi incurvare in avanti, all'indietro, fare capriole, resterà aggrappato saldo, coi denti conficcati nella tua spalla destra. Non se ne va, e certe volte dà fastidio. Magari vuoi solo leggere il giornale in pace, o aspetti placido di essere rapito dal soffice Morfeo, e invece ti ritrovi a sentire il suo alito appiccicoso nelle orecchie. Un capriccio, ecco di che si tratta, nulla più. Ma ti sta rovinando la vita. E più cerchi di ignorarlo, più la sua presenza diventa invadente perché, in fondo, in fondo, hai paura di dimenticarlo. E allora ecco che ogni incontro, ogni parola, ogni sorriso diventano un suo particolare, una pennellata frettolosa che ne delinea sempre più nitidamente il volto nascosto nell'incavo del tuo collo. Come un vampiro egoista, succhia tutta la tua vita e la risputa sotto forma di un grande universo grondante di bava di cui lui è il centro. Non se ne va, no, nulla da fare. In fondo, però, vuole solo una cosa, e tu lo sai. Anche perché non fa altro che urlartelo nelle orecchie ventiquattro ore al giorno. Alla fine cedi, e quando ti siedi alla scrivania lui è così eccitato che lo senti fremere, elettrico. Inizialmente farai un po' di confusione, col vomito di informazioni che lui ti rigurgita nell'orecchio, troppo impaziente. Poi, però, imparerai a distinguerne la voce, e con gesti sapienti costruirai il ponte d'inchiostro su cui lui scivolerà, soddisfatto, lontano da te.
Finalmente liberi.

domenica, febbraio 01, 2015

CONTRARI

Io mi ritengo fortunato: non tutti conoscono la data della propria morte, né il modo esatto in cui  essa avverrà.
Quando mi sveglio, quel lunedì di marzo, le uniche sensazioni che avverto sono tranquillità e soddisfazione, nella stessa densa mistura che ti si spalma addosso quando spunti una voce da una lista di cose da fare. So perfettamente cosa succederà e come succederà, stasera potrò spuntare un'altra casella. In senso figurato, s'intende. Perché questa sera sarò morto.
Non ricordo chi disse che è più facile accettare la propria sofferenza quando si sa che avviene per un bene più grande, forse ho coniato ora questo detto. Il punto è che è vero: la mia non sarà una morte vana, bensì un sacrificio. La data in cui avverrà sarà ricordata, io celebrato. Va fatto per i miei amici, i miei cari. Non lasciatevi ingannare, però: non sono un martire, né un volontario. Sono stato estratto. Se fosse dipeso da me, non avrei mai deciso di interrompere questa mia esistenza, ma sarò comunque celebrato come se tutto dipendesse da un mio grande atto di coraggio, perché è così che funzionano le cose. E perché cavoli, sono io quello a rimetterci la vita, almeno un minimo di riconoscimento credo mi sia dovuto.
Rotolo giù dal letto pesantemente. Ho deciso molto tempo fa, una volta conosciuto il mio destino, che quel giorno avrei bandito dalla mia mente l'idea dell'ultimo. Non avrei pensato 'é l'ultima volta che faccio colazione, l'ultima volta che vedo Tizio e Caio, l'ultima volta che cammino su questi pavimenti'. No, mi avrebbe solo depresso. Al tempo decisi che mi sarei concentrato su una poesia, e me la sarei ripetuta per tutto il tempo. In questo modo la mia mente sarebbe stata troppo impegnata, troppo piena per pensare alle ultime cose che facevo. Così eccomi qua, davanti allo specchio, mentre mi guardo ma non mi guardo. I miei occhi registrano i miei lineamenti, i miei peli bianchi, le pupille piccole e nere, questo aspetto così familiare che guarderò per l'ultima che tante volte mi si è presentato davanti, anche per caso. Nel riflesso di una finestra, nella trasparenza di una pozzanghera. Quante volte ho subito distolto lo sguardo, annoiato o disgustato. Quante, invece, ho indugiato, esaminandomi meglio, imparandomi più a fondo. Poche, questo è certo. Mai da sobrio, ancora più certo. Ora invece mi sono di nuovo davanti, ma la mia mente è troppo impegnata nella recitazione della mia poesia per curarsene.
Esco di casa senza salutare nessuno. Il fatidico giorno decisi anche che avrei passato la mia ultima notte (e mattina) da solo, senza familiari o amici. In questo modo avrei evitato occhi lucidi, abbracci, addii e altre cose che mi avrebbero distratto dalla poesia e riportato alla realtà, che in quel momento era l'unico luogo dove non volevo essere. Piego la schiena alla pesantezza del freddo della mattina appena nata, e mi incammino verso la piazza. Là accadrà tutto, là io diventerò niente. Ma questi pensieri non raggiungono il mio cervello, protetto da una spessa muraglia di parole di un poeta ormai passato o dimenticato. Quando arrivo ad un centinaio di metri dalla piazza, inizio a sentire il sudore che mi imperla, conferendomi una lucida beltà. La mia mente vacilla, le parole si confondono. Decido di ripetermi i nomi di chi se ne è andato prima di me, un modo come un altro per proteggere la mia testa dalla paura e per ricordarmi che chiunque, poi, conoscerà il mio nome. Mi concentro su questo futuro. Immagino foto di me stesso che tappezzano la città, individui che non conosco scoppiare il lacrime, cuccioli che parlano di me a scuola e pronunciano il mio nome con sommessa reverenza, sperando che quello che è successo a me non capiti mai a loro. Lo spero anche io, tanto.
Quando arrivo sono completamente zuppo. La mia pelle si è piovuta addosso. La piazza è gremita, come per tradizione, nessun segno di un muso conosciuto. Li immagino a casa propria, che guardano apatici la parete davanti a loro, sapendo che in questo preciso momento, qualcuno che amano, un pezzo del loro cuore, sta per non esistere più. Il Capo mi vede arrivare e mi rivolge un segno di assenso, poi indica il palco alle sue spalle. Non deglutisco perché tutta l'acqua contenuta nel mio corpo è stata espulsa sotto forma di sudore. Salgo le scalette tremolanti e mi posiziono al centro del palco, su una grossa X rossa. Poi mi accuccio. Cerco una posizione comoda, faccio grandi respiri. Vedo piano piano la folla crescere, con i ritardatari che zampettano veloci, desiderosi di vedere ed ignorare lo spettacolo allo stesso tempo. Vedo qualche cucciolo in prima fila e qualcosa disegna una crepa nella mia fortezza mentale. La luce bianca del ricordo si dispiega piano, assumendo a poco a poco colori e sfumature diversi. Sono io, appena un paio d'anni, con i miei amici. Siamo seduti sotto il palco, le facce lunghe e le lacrime facili, come i nostri genitori ci hanno insegnato. Ma quando avviene tutto, non riusciamo a distogliere gli occhi, con un fulmine di adrenalina che ci attraversa il cuore. Tremo leggermente, non per la paura, bensì per il modo in cui essa mi fa sentire: vivo. I miei amici hanno lo stesso sguardo spiritato, mi sembra quasi di sentirne il battito accelerato, ma so che appena sarà tutto finito noi parleremo solo di quanto è stato orribile e triste, altrimenti sarebbe strano. Mi chiedo se farò quest'effetto anche io, se qualcuno proverà un sottile piacere nel vedermi morire.
Una luce fortissima inonda tutto, fino a rischiarare la lucida muraglia di seta nera della città. Poi iniziano i rumori, fortissimi. Come un'acquazzone più violenta, ma senza acqua. I suoni si placano, si avverte solo una frequenza bassa, una serie di percussioni e, infine, di nuovo quel fragore torrenziale. So che questo tira e molla assordante dovrebbe durare almeno una ventina di minuti, e sono abbastanza certo che quando alla fine succederà, sarò già morto di infarto, considerando il mio ritmo cardiaco in questo momento. Ho appena iniziato a sviluppare una sorta di asma, quando una serie di note attutite e ben conosciute si fa largo nella confusione. Sento tutta la città trattenere il fiato, sappiamo esattamente cosa sta per succedere. Ho sentito quella musica così tante volte, mai avrei pensato che sarebbe stata anche l'ultimo insieme di note che il mio orecchio avrebbe assaporato, così fredde, grondanti di terrore. La frequenza bassa torna ed una lacrima si caracolla sul mio muso. Un boato attraversa la folla ed io alzo gli occhi. Eccola. La cosa più mostruosa del mondo. Sembra una zampa, ma non lo è. Enorme, liscia, di un colore stranissimo, simile all'interno delle nostre orecchie. Ha cinque lunghi ganci ad artiglio che incombono, in questo preciso momento, sopra di me. Scende lentamente ed io nascondo la testa fra le zampe. Quando la sento entrare in contatto con la mia schiena, vomito. È fredda, viscida, ma soprattutto, è forte. Prima che me ne renda conto sono sollevato in aria, il vomito una cascata disgustosa dalla mia bocca. Vedo la mia vita diventare sempre più piccola. Là sono cresciuto, là compravo da mangiare, là ci vivono certi che mi sono stati sempre antipatici. Tutto diventa più confuso e minuscolo man mano che mi allontano dalla città. Un'ultimo sguardo, sono così in alto che la vedo nella sua interezza.
Sono fuori.
Luci accecanti.
Un fragore fortissimo.
Sembrano applausi.

sabato, gennaio 10, 2015

PANDA

Prima di conoscere mia moglie convivevo con una bella ragazza, Melissa. Una sera di aprile, mentre eravamo ancora avvolti dalla nube di zucchero e romanticismo che è il primo anno di una relazione, lei decise che voleva vedere come ero da bambino. Così guidammo fino a casa di mia madre, io le schioccai un bacio sulla guancia mentre lei si aggiustava la stola di cotone e frugava con attenzione fra gli scatoloni in cantina, per poi riemergere con un grosso libro azzurro su cui campeggiava il mio nome. Noi lo prendemmo, ringraziammo e tornammo a casa. Melissa iniziò a sfogliare l'album, ridendo e chiedendomi di raccontarle le mille parole che quell'immagine doveva valere. Quando arrivammo ai diciotto anni, lei prese in giro i miei pantaloni a vita alta e gli occhiali tondi, volle sapere come mi ero rotto il braccio quell'estate in Calabria e, alla fine, additò una vecchia foto di gruppo, interessata ai nomi dei protagonisti. Con un sorriso ed un braccio attorno alle sue spalle, snocciolai i nomi dei miei amici d'infanzia come se quel tripudio di jeans, pelli abbronzate e barbette timorose fosse stato immortalato solo ieri. Quando indicai un ragazzo accovacciato in prima fila con altri due miei amici e lo battezzai 'Panda', Melissa mi guardò, la guancia appoggiata sulle manine intrecciate e mi chiese 'Perché Panda?'. Io rimasi un attimo interdetto: non sapevo risponderle. E non era perché quasi vent'anni di birre, baci e botte avessero seppellito quel ricordo come la terra una bara: non lo avevo mai saputo. Quando avevo conosciuto Panda ero in quell'età in cui più si fa finta di sapere più si sembra fighi, e quando lui mi aveva stretto la mano identificandosi con quello strano appellativo, non avevo neanche pensato a chiedergli una spiegazione. Inoltre, lui era una ventina di centimetri più alto di me, e sinceramente, della storia dietro il suo soprannome non me ne fregava niente, al tempo. Melissa sporse il mento in avanti e socchiuse gli occhi, 'Non fa niente!' rise 'Era solo curiosità' e girò pagina. Però la curiosità è contagiosa, e io sentivo già i suoi germi entrarmi nel cervello ed infettare ogni mia sinapsi. 'Aspetta!' quasi urlai. Tornai indietro e sfilai la foto incriminata dagli angoli di carta che la imprigionavano, poi mi alzai e mi sedetti sul divano opposto, come se allontanarmi da un altro cervello avrebbe fatto funzionare meglio il mio. Osservai la foto, dubbioso. Il ragazzo era alto e magro, con il collo lungo e gli zigomi sporgenti. Gli occhi, appena infossati, erano deformati dal sorriso e mi guardavano da dietro un paio di lenti sottili. Il suo aspetto non ricordava neanche vagamente quello di un grosso ed imponente panda, né tuttavia gli era tanto opposto da poter essersi guadagnato il soprannome a colpi di ironia. Melissa disse che andava a letto ed io mi alzai per seguirla, lasciando la vecchia foto sul cuscino del divano.
Quando mi svegliai, il giorno dopo, però, la foto era ancora lì come il mio desiderio di scoprire l'origine del soprannome. La afferrai in fretta e la nascosi nel portafoglio, poi poggiai distrattamente le mie labbra su quella di Melissa e mi diressi a lavoro. Una volta in ufficio estrassi la foto, la lisciai per bene e mi misi a fissarla, il viso appoggiato sulle braccia conserte. Poi frugai nei miei cassetti, trovai un foglio a righe e scrissi 'PANDA' tutto maiuscolo in cima. Lo sottolineai tre volte. Allora, quali sono le caratteristiche di un panda? I colori: bianco e nero. Tornai alla foto, Panda sfoggiava una zazzera bionda e una pelle abbronzata, gli occhi che erano solo due puntini nell'immagine, me li ricordavo di un azzurro stanco. Allora cosa. Cos'altro è bianco e nero? Guardai il peluche a forma di piccolo toro granata che sedeva pigro di fronte al portapenne. No, l'avrei saputo, mi dissi. Soprattutto se amava tanto la sua squadra da averne ricavato un soprannome, soprattutto se quella squadra era... rabbrividii. La Juve. Possibile che fossi stato amico di uno Juventino per così tanto tempo? No, anche gli amici che me lo avevano presentato erano tifosi del Torino, persino più di me.
Quella sera fui costretto a mangiare indiano perché dissi che avevo voglia di esotico e Melissa odia il cinese. Mentre lei era in cucina ad ingurgitare chili di pollo al curry, io mi ritirai in salotto con la mia lista. I panda di solito sono dolci e coccolosi, giusto? Scrissi 'abbraccio facile' sotto 'bianco e nero' e lo depennai proprio come avevo fatto con il primo. Panda non parlava molto, anzi, era scorbutico e a volte grugniva invece di rispondere 'sì' o 'no'. Cercai su Google 'verso del panda' ma scoprii si trattava  più di un ruggito soffocato che di un grugnito. Forse era per il suo alito. I panda mangiano solo eucalipto, no? Mi sforzai di ricordare se Panda avesse un alito particolarmente profumato o se fosse un fermo sostenitore delle caramelle Halls e mi sforzai così tanto che mi ricordai che quelli che mangiavano solo eucalipto erano i koala, non i panda.
Praticamente divenne un'ossessione. Ci pensavo continuamente. Quando Melissa sbatteva la porta e si chiudeva in camera riflettevo se Panda avesse un comportamento simile, e se fosse accostabile a quello dell'animale (Risposta: no, Panda non sbatteva mai le porte). Passavo le sere a cercare notizie su quei bestioni pelosi (No, il mio amico non era neanche particolarmente peloso) e a confrontarle con la foto e i miei ricordi. Una sera, dopo una brutta litigata, Melissa aveva tutto il trucco colato, il mascara sciolto dalle lacrime che creava un'ombra scura sotto gli occhi sporgenti. Subito la lampadina si accese: riesumai la foto e cercai le occhiaie del mio amico, purtroppo però quasi invisibili sul volto abbronzato. Alzando lo sguardo e rincontrandolo nello specchio di fronte vidi con delusione che di occhiaie erano molto più vivide le mie, le urla di Melissa che facevano da sottofondo.
Fu in autobus invece che mi venne in mente la pista dell'occhio nero: forse aveva ricevuto un pugno tanto violento da lasciargliene uno per un bel po', ed il soprannome era rimasto anche dopo che l'occhio era guarito. Ma Panda sembrava un tipo che se ne stava sulle sue, non gli piaceva mettersi in mezzo.
Mentre tornavo a casa con una busta di cibo cinese in mano, invece, pensai all'origine asiatica dell'animale, ma i colori chiari del mio amico eliminavano anche questa teoria.
Una volta Melissa mi urlò addosso così forte che quasi ruggì e subito mi venne in mente una mamma orsa che cerca di difendere i suoi piccoli. Sapendo che orsi e panda fanno parte della stessa famiglia, subito presi in considerazione l'ipotesi di un attaccamento eccessivo ai propri familiari da parte del mio amico. Ma Panda aveva appena 18 anni, e, come già avevo ricordato, non era un tipo molto espansivo.
La connessione nel mio nuovo appartamento era lenta, ma non così tanto da fermare le mie ricerche. Ci furono quattro giorni in cui ero convinto Panda facesse parte di un'organizzazione mafiosa. Tutti avevano soprannomi nella mafia, no? Forse il suo era dovuto ad un particolare modo di lavorare, o di uccidere. Me lo immaginai muovere dei passi goffi attorno ad un potenziale informatore, avvicinare la faccia a punta al suo orecchio e sussurrare 'Dì che è stato il Panda' mentre lasciava che la lama del suo coltello a serramanico si facesse strada nelle membra dell'altro. In quei quattro giorni bevvi quindici RedBull e dormii tre ore, impegnato com'ero a setacciare il web in cerca di prove che validassero la mia teoria.
Alla fine, decisi che forse la cosa più semplice da fare fosse trovare il diretto interessato e porgergli la fatidica domanda. Così lisciai la foto che aveva un po' sofferto negli scatoloni e la scannerizzai. Poi tagliai, ingrandii e misi a fuoco. Infine, feci una ricerca per immagini su Google che, ovviamente, non  ammise nessun risultato utile, se si eliminano le foto di patate con gli occhiali, anche perché la faccia di Panda era composta da qualcosa come tre pixel.
Quello era il mio ultimo asso nella manica, così rinunciai. La cosa importante era che nessuno nominasse l'animale in mia presenza, e che evitassi lo zoo, e stavo bene.
Un paio d'anni dopo, mentre camminavo verso il bar dove avrei conosciuto la mia attuale moglie, incontrai Alessio, un mio amico d'infanzia. Lo salutai e ci fermammo a chiacchierare, le smorfie benevole che disegnavano linee profonde agli angoli degli occhi. Ad un certo punto, mi tornò in mente. 'Alessio, per caso sai da cosa derivasse il soprannome di Panda? Me lo sono chiesto un po' di anni fa, ma non me lo ricordavo'. Ovviamente evitai di menzionare tutte le lattine di RedBull e che per quasi un anno la mia cronologia comprendeva soprattutto viste al sito 'www.pandaeio.it'. Alessio annuì, mentre deglutiva un sorso d'acqua ed io sentii il mio cuore iniziare a battere. Ero come un bambino la mattina di Natale, la felicità impregnava quei secondi che mi separavano dalla verità, dal conoscere, finalmente, la soluzione di quell'enigma su cui tanto avevo ragionato. Mi sembrava che gli occhi mi stessero per uscire dalle orbite, la bocca deformata nel principio di una risata sollevata che sapevo stava per essere giustificata. Alessio parlò. 'Non era un soprannome: sua madre era una hippy e lo aveva chiamato così, proprio Panda. Anzi che a lui è andata bene che ha un fratello che si chiama tipo Armadillo, che ne so. La gente è matta, eh!'

venerdì, gennaio 02, 2015

BIOGRAPHIA

Io sono una da frasi ad effetto.
Sono una a cui piacciono le citazioni, una che resta intrappolata in pochi caratteri, una che pensa prima al titolo che alla storia. Amante dell'ermetismo, suppongo possiate chiamarmi. Ma sono anche il tipo di persona che pensa alla sua biografia prima ancora di essersi diplomata, che può essere considerata arrogante, ma che semplicemente ci mette molto ad addormentarsi. E così, finalmente, un giorno, la vidi: la copertina. Un pavimento di legno bianco scrostato prende tutta la pagina, sopra, una polaroid che ancora non si è sviluppata, luminosa e misteriosa perché potrebbe aver immortalato qualunque cosa. A troneggiare su questo paesaggio così minimale il mio nome e tre lettere in Times New Roman: Bio.
Bio, vita, sono molto affascinata da questa parola. Mi piace il fatto che sia antica, ma allo stesso tempo di uso comune fra gli abitué dei social network. Che tu sia uno stoico greco con la toga drappeggiata addosso o un americano di quattordici anni che mangia troppi hamburger, comunque sia bio significa vita per te. Certo, la sfumatura è diversa, specialmente considerando che oggi per bio si intendono poche parole, una frase, per rappresentare la tua persona, e che molti addirittura optano per una semplice emoticon. Comunque, è una parola che è sopravvissuta alla polvere ed ora si erge scintillante e beffarda sulle sue sorelle dimenticate. I motivi per cui questo piccolo angolo di internet non si chiama 'Bio' sono però meno poetici. Innanzitutto, l'indirizzo non era disponibile. A quanto pare uno spagnolo appassionato di biologia e di punti esclamativi è arrivato prima di me (Ho controllato). Secondo, avevo paura di essere aggredita da una valanga di vegani delusi dalla povera presenza di quinoa e latte di mandorla su questo blog. Così mi sono ritrovata costretta a dover aggiungere 'Graphia' e la cosa non mi dispiace. Grafia significa scrittura, e qui è proprio quello che stiamo facendo: scrivere. Inoltre, essendo qualcosa che idealmente dovrei continuare a fare per almeno un anno, mi sembra anche un nome azzeccato. 'La Scrittura della Vita', ossia ciò che scrivo mentre vivo, almeno così la interpreto io. Mi piace anche appellarmi al significato che erroneamente ha assunto la parola 'Bio' nella recente ondata di succhi di cavolo e braccialetti dell'equilibrio: sano. Una scrittura sana, perché priva di influenze o restrizioni. Pura, naturale.
Per quanto riguarda gli slash, il ph, l'accento e il mezzo corsivo, poi, semplicemente faceva fico.